Dopo la catastrofe pandemica e i suoi simboli che fine hanno fatto la capacità di amare e la capacità di stare da soli? In che rapporto stanno?

Il lungo protrarsi della pandemia e del suo perdurare a tutt’oggi, ci ha fatto interrogare, forse come non avveniva da tempo, sia a proposito di noi stessi, in quanto singoli, sia a proposito delle nostre relazioni con gli altri da noi, ossia i nostri simili. La nostra duplice dimensione, individuale e sociale, ha dovuto fare i conti con la quarantena, tristo vocabolo che rimanda a drastiche misure storiche, anche molto antiche, di isolamento individuale quale unica risposta al dilagare della morte collettiva.

Come abbiamo vissuto, come stiamo vivendo ancora oggi, la mancanza di relazioni, il recesso, la sottrazione più volte reiterata, ora in modo ora totale, ora in modo parziale, delle nostre personali aliquote, delle nostre soggettive e imprescindibili percentuali partecipative al capitale di vita comune, sociale di cui siamo per natura azionisti e ragione per cui ci aspettiamo di essere chiamati a compartecipare, comunque e sempre, obbligatoriamente?

Con il nostro comportamento sicuramente abbiamo risposto. Ma come abbiamo risposto? Ostentando la virtù dell’obbedienza o la nobiltà della rassegnazione responsabile? Forse abbiamo indossato gli abiti stretti dell’atarassia stoica o il saio della serena rinuncia dell’asceta? O ancora forse schiumando dalla bocca rabbia repressa che si monta, si autoalimenta dando la scalata a tutti i sinonimi peggiorativi del vocabolo “critica”? Oppure, infine, con l’audace spavalderia della sfida e della provocazione che spinge dentro a un gioco iniquo sia noi stessi sia gli altri con noi. Il catalogo non è certamente esaustivo, si potrebbe continuare ma non è di ciò che si vuole occupare la presente nota riflessiva.

Ci siamo chiesti, presumibilmente almeno una volta, quando siamo stati costretti per imposizione estrinseca a stare di fatto da soli, se ne possedevamo effettivamente la capacità purchessia? Oppure, anche in quella concreta e precisa circostanza abbiamo allontanato il pensiero, lo abbiamo tralasciato come poco utile, pertinente, lo abbiamo rimandato a domani, lo abbiamo omesso, rifiutato, rimosso.

Eppure questo lungo e devastante tempo di pandemia con le sue truci raffigurazioni di isolamento e solitudine non ce l’ha fatta a deprivarci del tutto della nostra umanità, la solitudine coatta cui ci ha costretto probabilmente, anzi ne ho certezza, ha indotto molti tra noi a riflettere sulla personale capacità di stare soli.

Chi ci ha provato riferisce di aver raggiunto anche ragguardevoli risultati.

Eccone un risultato che può apparire a prima vista paradossale ma così non è, corrisponde a una verità esistenziale.

Acquisire la capacità di stare soli accresce la capacità di amare.

Soltanto chi è capace di stare solo è capace di amare, di condividere, di arrivare a cogliere molto da vicino l’essenza più intima dell’altro; tutto questo senza possederlo, senza diventarne dipendente, senza ridurre l’altro ad una cosa, senza assuefarsi all’altro.

Soltanto chi ha imparato a stare da solo ma anche, particolare molto importante, da solo anche in presenza dell’altro, permette all’altro la sua libertà perché sa che se l’altro non c’è o se ne va egli sarà felice lo stesso.

La sua serenità permane, perché non è l’altro a conferirgliela. La possiede dentro di sé.

Desidera stare con l’altro ma il suo desiderio non è più un bisogno è un qualcosa di indefinibile che si può paragonare, arrivandovi molto vicini, a un lusso.

Gode nel condividere ma sa vivere la sua vita come un suonatore di assolo che crea armonie per sé e tuttavia, non disdegna di riversare il suo piacere di vivere sugli altri, accompagnandosi, se capita, con altri suonatori di assolo per creare con loro nuove armonie.

Le persone reali per lui sono un lusso non un bisogno, egli le ama come tali e in quanto tali e fino in fondo.

 

 

 

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