“Giovane donna muore massacrata di botte dal marito”. Sì, è questo, proprio questo, il titolo che state leggendo distrattamente, stamattina, sul vostro giornale locale; lo avete sfogliato annoiati, solo poco fa e ora lo tenete aperto tra le mani, per puro caso, alla quinta pagina, per così dire, la meno importante, quella che non affronta quasi mai i perché di un fatto riportato; sì, mi riferisco a quella che ripete lo stesso titolo e lo stesso trafiletto che l’annunciatrice televisiva di turno ha letto, ieri sera, al telegiornale nazionale, seduta dietro la scrivania con viso calmo e tono professionale, ad occhi bassi puntati sul foglio. Piuttosto voi, voi, a cui mi rivolgo ora e che state ancora tenendo in mano il giornale, voi che dite di leggere, mentre vi siete abituati a scorrere solo i titoli e a dimenticare subito dopo anche quelli più forti, voi che vi liberate del giornale dopo averlo sfogliato e ripiegato per bene, chiedo a voi: che cosa state pensando, che cosa avete pensato di quel titolo? State bisbigliando qualcosa che mi riguarda o forse avete bisbigliato tra voi e voi stessi, magari per nulla colpiti o sorpresi dalla notizia ma seriamente preoccupati per la vocina bizzarra che avvertite e che vi sta parlando? Vi state forse domandando se si tratti di un fischio, di un ronzio fastidioso del vostro orecchio o invece di qualcos’altro e allora da dove e da chi proviene questo strano miscuglio di suoni, di parole, di mezze frasi che si sta insinuando nella vostra testa? Perché si esprime così? Cosa vuole? Ve lo chiedo perché lo so! Perché facevo anch’io come voi, prima, con tutte le altre finite come me di cui sapevo; dicevo a me stessa: brutta faccenda… è toccata a loro… poi concludevo con… a me non succederà… Eh sì, ripeterlo mi faceva sentire come dire… a posto. Ma voi rispondetemi, dico a voi, ora: vi incuriosisce saperne un po’ di più del motivo che ha messo fine in modo tanto orribile alla mia vita, sì o no? Ve ne importa almeno un po’ oppure per niente? Beh, anche se non vi importa se non per quel tanto che serve a farvi sospirare con toni di compassione: “Ecco un’altra vittima”, io ve lo racconto lo stesso. Serva o non serva a chi resta… Anche se un po’ ci spererei che servisse, davvero, sono sincera: ci terrei proprio che potesse suscitarvi un ricordo, un pensiero, un’idea, uno scatto della mente, mi basterebbe. Dove mi trovo adesso, è una specie di limbo, non c’è né buio né luce, non sento più male, niente nel corpo, niente neppure nell’anima, sto aspettando, sono completamente sola e ho tanto freddo. Raccontandomi, raccontandovi, ricordando per me e per voi forse riuscirò a scaldarmi un po’; mi sembrerà di essere ancora viva, per un po’, insieme a voi. A me piaceva vivere, sapete, mi piaceva tanto… Come avrete già capito io non sono una letterata, non sono neppure istruita, mi esprimo semplicemente, come ho imparato da me solamente, come mi ha insegnato la vita. Non mi lamento di niente. Da qui, dove sto ora, il punto di vista sulle vicende della vita cambia completamente, fidatevi, le vedi tutte per la prima volta ma soprattutto come avresti dovuto vederle quando eri vivo. Adesso è tardi. Ero la terza di quattro figli: due maschi e due femmine. La mia famiglia? Una famiglia di contadini semianalfabeti che lavoravano in un grande podere, sì, solo che non era il loro, erano mezzadri e lavoravano per altri, i proprietari, quelli veri. Da vivere c’era, sì, ma non da scialare; qualche soldo nei risparmi ma non bastava per farci proseguire negli studi oltre la terza media. A me era andata bene rispetto ai miei tre fratelli che erano stati costretti ad aiutare, chi in casa, chi nel podere, i nostri genitori. A me era stata data una possibilità a sedici anni, andare in città a fare la commessa; prima come apprendista, poi come fissa, in un grande magazzino in periferia che vendeva scarpe per tutti a buon prezzo. Avevo diciotto anni quando ho conosciuto l’uomo che sarebbe diventato mio marito prima, il mio assassino dopo. Fu proprio lì, fui proprio io, tra le dieci che eravamo, la commessa che lo convinse a comprarsi un paio di mocassini scamosciati neri. Ricordo come fosse ieri: lui se ne uscì tutto soddisfatto dal negozio con il suo pacchetto sottobraccio; io invece mi sentivo stranamente esausta e in più disturbata dal suo sguardo. Non era perché era stato un cliente difficile da accontentare, ne avevo serviti di peggio, ma per altri motivi che ora vi dico. Nessun uomo mi aveva guardata prima come mi aveva guardato lui mentre gli portavo i mocassini di varie marche e lo aiutavo a calzarli. Certe occhiate! Uno sguardo che penetrava sotto al vestito, mi pizzicava, mi bruciava quasi la pelle sotto! Sentivo questo sguardo posarsi e scorrere su di me senza bisogno di vederlo e mi faceva uno strano effetto, una specie di composto misto di piacere, di fastidio e di vanità. Mi intimidiva ma allo stesso tempo mi pareva anche che mi facesse sentire, sotto i vestiti e sopra la pelle nuda, bella e desiderata da un uomo che, a guardarlo, era più grande di me; certo un bell’uomo, sicuro di sé, vestito bene, un magnifico sorriso. Destino! Pensate, era poco più di tre anni fa; non posso crederci… Il tempo che ultimamente mi sembrava non passasse mai ora mi rendo conto che invece è volato via! Sono terrorizzata al pensiero che ho l’eternità davanti a me. Cosa è successo dopo? Si fa presto ad immaginarlo e presto anche a dirlo. Si fece vedere al magazzino parecchie altre volte e ogni volta aspettava; aspettava finché non ero libera e lo servivo io. Una sera, all’uscita, me lo sono trovata davanti pronto a propormi, sorridendo e con aria innocente e credibile, se mi facesse piacere bere un aperitivo con lui al bar di fronte al magazzino e fare due chiacchiere. Perché non accettare? Mi chiesi. In fondo è diventato ormai un cliente fisso, non c’è nulla di male, mi dissi. Non succederà niente che io non voglia. Presi coscienza pian piano che mi piaceva essere corteggiata; ecco sì, sono sicura, questo mi piaceva; poi, pian piano essere corteggiata da lui e basta. Era piacevole e io non ero mai stata corteggiata prima, almeno non da un uomo più grande di me, questo sì mi piaceva. Parlava sempre lui, parlava tanto: chi era, da dove veniva, cosa faceva, i suoi interessi, la sua famiglia, la sua vita, sembrava un libro scritto solo per me, scritto, stampato, aperto davanti a me e solo per me e che io potevo sfogliare e leggere a mio piacimento. Ci incontrammo parecchie volte, in posti sempre diversi, tutti carini, romantici ma questo lo pensavo io. Quasi senza accorgermene, piano piano, le mie considerazioni iniziali caddero ad una ad una e mi presi di lui. Saranno state le attenzioni che mi rivolgeva, l’aria allegra e le battute pronte e spiritose oppure quei suoi occhi penetranti e grandi, appassionati sempre ma che a volte sembravano esprime un desiderio: divorarmi tutta dalla testa ai piedi. Mi parlò della sua vita attuale, era single, magazziniere in una ditta di elettrodomestici molto nota, un appartamentino in affitto. Famiglia d’origine da tempo oramai lontana, la sua infanzia non era stata facile neanche per lui. Anche lui non era figlio unico, ma l’ultimo di cinque sorelle. Era il più piccolo ed era stato messo in collegio alla morte della madre quando aveva solo cinque anni. La madre era morta in circostanze mai chiarite. Suo padre, un uomo rozzo e rissoso, lui lo aveva definito un attaccabrighe e aveva aggiunto: sempre nei guai e senza un vero lavoro. Si era risposato con una vedova con qualche soldo che però stravedeva per le sue sorelle, per lui ch’era un maschio non c’era posto. Se ne era andato via da casa appena maggiorenne, si era reso autonomo da loro, diceva, ogni tanto si sentivano… Mi accorsi che mi stavo innamorando perché sentivo tenerezza per lui e avevo voglia di condividere con lui tutto e subito. Pensavo: anche lui, come me, non ha avuto una bella infanzia, siamo uguali. Gli raccontai che anche mio padre non era stato sempre un buon padre per me. Normalmente era sobrio e di poche parole, troppo chiuso in sé stesso e con le persone, quando però, come per esempio nelle feste, alzava il gomito, diventava chiacchierone ed aggressivo. Gli confessai che più di una volta l’avevo visto mentre strattonava e trattava malamente mia madre che gli rimproverava di aver bevuto. Ci illudevamo entrambi, o forse no, ero solo io a farlo, che se ci fossimo messi assieme, noi due, a noi non sarebbe successo niente di tutto ciò che era successo nelle nostre due famiglie. Eravamo forti di una cosa, o almeno così mi sembrava, che ci saremmo sempre stati l’uno per l’altra e viceversa. Pensavo che ci sarei stata io per lui per aggiustare e completare le sue fragilità e le sue debolezze, così come lui ci sarebbe stato per me ad aggiustare le mie; ci saremmo capiti ed aiutati così come avremmo voluto essere capiti e aiutati noi stessi nei nostri bisogni insoddisfatti. Ci fidanzammo e dopo un anno circa ci sposammo. Avevo compiuto da poco diciannove anni. Andai a vivere da lui. Rinunciammo al viaggio di nozze perché ero già incinta di Elio, il mio primo e unico figlio. Fu una gravidanza difficile, minacciavo di abortire, dovetti fare il cerchiaggio cervicale e stare a riposo negli ultimi mesi. Quando nacque Elio e lo vidi per la prima volta, prima ancora di dirgli: “Ciao piccolino!” lo presi tra le braccia e contai istintivamente le dita delle sue mani e dei suoi piedi, provai una gioia immensa, indescrivibile, straordinaria, la più intensa, la più vera di tutta la mia breve vita. Già, la mia vita, allora non pensavo proprio per niente che si sarebbe conclusa così. Mi licenziai dal lavoro… no, non dicendo la verità, fui licenziata. A seguito della maternità e dell’indispensabile accudimento che dovevo e volevo dare io stessa al mio piccino, mi ero assentata troppo dal lavoro, secondo loro. Feci causa alla ditta e pur avendo ragione patteggiai. Mi furono date una liquidazione e un’indennità di disoccupazione. Ma altre nubi stavano addensando l’orizzonte di casa nostra. I nostri rapporti, voglio dire quelli tra me e mio marito, non erano già più quelli che erano stati agli inizi. La nascita di Elio, anche se ero sempre in casa, ci aveva in un certo senso allontanati. Lo attribuivo al fatto che ero troppo presa del bambino e non avevo molto tempo per lui, lo trascuravo. Cercai di avvicinarmi, per riconquistarlo e riportarlo a me, funzionò per qualche tempo, poi però lui riprese ad allontanarsi da me e io ci soffrivo. Non ci parlavamo più come una volta, meglio non mi parlava più come una volta, usciva spesso ma non solo per andare al lavoro. A volte mi diceva dove andava a volte faceva il misterioso. Quando era in casa, era silenzioso, guardava la tv, dormiva sul divano o andava a dormire in camera. Non mi aiutava in niente e neppure si offriva di occuparsi di Elio, era distratto e trascurava anche con lui. Mandavo giù bocconi amari, ma speravo, speravo tanto che tutto sarebbe tornato piano piano a posto. Provai a parlarci una sera, gli chiesi semplicemente se c’era qualcosa che lo preoccupava che si aprisse pure con me, ero pronta ad ascoltarlo, a capire. Non prese bene la proposta, reagì in malo modo, dicendo che non avevo capito niente, che non sapevo nemmeno da dove si incominciava per ascoltarlo e capirlo veramente, che se proprio volevo fare qualcosa per lui che facessi la moglie, nel senso che facessi di più l’amore con lui, secondo lui lo facevamo poco specie da quando era nato il bambino. Ritenendo che la ragione fosse dalla sua parte, mi adeguai. Ma il clima in casa restò teso lo stesso, c’era come dell’elettricità sospesa nell’aria di casa nostra che eravamo entrambi obbligati a respirare. A complicare il tutto venne anche il suo licenziamento dal lavoro, improvviso e, a suo dire, immotivato. Cominciò a cercarne uno, uno qualsiasi, così diceva lui, per tirare avanti. Usciva di casa di giorno e di notte, per presentarsi in posti differenti, rispondendo agli annunci che leggeva sul giornale, diceva anche che si era messo nella lista dell’ufficio di collocamento… ma niente. Passavano le settimane, i mesi e i soldi cominciavano a scarseggiare. Rimasi di stucco, quando andando io stessa in banca per prelevare un buono del tesoro in scadenza e su cui avevo fatto confluire una parte della mia liquidazione, l’impiegato trattenendo a stento lo stupore, mi fece notare che l’aveva già ritirato mio marito qualche tempo prima. Tornata a casa, lo trovai sdraiato sul divano che guardava la televisione mentre dalla camera da letto provenivano le urla e i pianti di Elio. Mi presi cura del bambino, era bagnato, lo riaddormentai ma solo dopo tanto tempo e tanta fatica. Tornai da lui, mi sedetti di fronte a lui e lo fissai a lungo prima che lui si accorgesse di me; restavo in silenzio e cercavo di trovare le parole giuste per spiegare la faccenda della banca senza scatenare la sua reazione. Finalmente spense il televisore e rispose al mio sguardo. Gli dissi la verità ossia che ero stata in banca per prelevare ma che il buono del tesoro non c’era più. Gli chiesi semplicemente di spiegarmi perché l’aveva fatto e non me ne aveva parlato. Divenne scuro in viso, lo sguardo cupo, appuntito come uno spillo e sprezzante, gridò contro di me parole dure sostenendo che lo stavo accusando di essere un ladro, mentre lui era mio marito, cointestatario dello stesso conto corrente, in più disoccupato, forse non mi fidavo più di lui? Forse avevo strane idee in testa? Forse pensavo chissà che cosa di lui? Forse avevo un altro? Lui lo sospettava da tempo ed altre accuse ancora che non ricordo più in un crescendo sempre più veloce, impetuoso, travolgente; forse mi urlò contro mentre mi picchiava, come aveva speso quei soldi, non ricordo bene. Neppure ricordo come fu che ad un tratto mi sentii afferrare con forza le spalle da lui, strattonare e poi non so dirvi neanche come avvenne ma avvertii un bruciore intenso, come di chicchi grossi grandine, sul viso, chiusi istintivamente gli occhi e cercai di metterci sopra le mani per proteggermi ma i chicchi di grandine picchiavano forti e ripetuti sul resto della faccia: sulle guance, sulla fronte, sulle orecchie, sul mento, sul collo, sulla testa. Devo aver urlato molto forte con tutta la forza che avevo dentro, la grandinata cessò di colpo e mi trovai rovesciata a terra con una strana sensazione di indolenzimento in tutto il corpo, come se la grandine non si fosse limitata alla sola faccia ma avesse continuato a scendere e a sferzarmi nelle parti più basse del corpo senza che me ne accorgessi. Mi alzai ed andai lentamente, quasi alla cieca, in bagno, stavo male, avevo voglia di vomitare, avevo paura a guardami nello specchio o forse avevo solo tanta paura e basta. Mi guardai con occhi socchiusi e gonfi le mani, mi tremavano, erano sporche di sangue, non me ne ero resa conto ma mi stava colando sangue dal naso, cominciava anche a sussultarmi il petto mentre crescevano scosse e tremiti in tutto il corpo. Tornai a tentoni in camera da letto, avevo bisogno di coricarmi, sperai che lui non ci fosse, probabilmente, mi dicevo, era uscito per poi rientrare. Mi sbagliavo: non potei sdraiarmi, nel letto c’era lui con accanto nostro figlio, lo teneva stretto a sé. Ebbi un presentimento terribile. Lo sviai. Tornai in cucina, ero terrorizzata e tutta un dolore, mi sedetti; ero confusa, sgomenta, stordita, vuota dentro, non riuscivo a pensare né a muovermi. Rimasi per tutta la notte in quello stato di immobilità attonita, gambe aperte, braccia abbandonate lungo i fianchi, a fissare con gli occhi semiaperti un punto d’incrocio di quattro piastrelle bianche davanti a me. Mi stava assalendo il terrore di impazzire. Per questo motivo incominciai a ripetermi mentalmente per tante volte che non potevo disgregarmi, perdermi, annientarmi, uscire di testa, sciogliermi nel niente. L’indomani mattina lui venne in cucina con il bambino al collo, mi guardò calmo, posò il bambino ancora imbambolato dal sonno sul seggiolone e si chinò su di me, ancora seduta sulla sedia con la testa abbandonata, fece di più, si inginocchiò, mi abbracciò le gambe posò la testa sul mio grembo scoppiò in un pianto infantile che pareva sincero e mi chiese di perdonarlo, stessi certa, non sarebbe mai più successo. Guardai Elio che dormiva, con la testolina reclinata su di un lato, indifeso, nel seggiolone, sembrava un angioletto. Gli credetti, lo perdonai, sperai che non sarebbe più accaduto. In fondo, mi dissi, l’avevo provocato, lo avevo accusato, anche se non apertamente, di essere un ladro, mentre invece era mio marito, quei soldi erano miei, ma di fatto erano nostri, della nostra famiglia, qualunque uso anche non necessario ne avesse fatto. Passò qualche tempo, mi ripresi dai lividi fisici ma non da quelli che avevo oramai dentro. C’è da dire comunque che le cose tra me e mio marito non andarono meglio. Mio marito nonostante le promesse non cambiò le modalità del rapporto tra noi. Rimase duro e freddo non solo con me ma anche con il bambino che, nel suo piccolo, si capiva chiaramente che ci pativa. Ci limitavamo a pochi scambi di parole, quelli indispensabili. Avevo paura di irritarlo e che lui per quella sua irritabilità facile andasse in bestia. Ci contrastavamo ancora, ma mi fermavo prima che la lite andasse avanti: rinunciavo. Tenevo duro; dicevo a me stessa che dovevo essere forte per Elio che al suo papà ci teneva, per me ed anche per mio marito che stava attraversando un brutto periodo, non aveva un lavoro fisso, solo lavoretti, da pochi euro. Mi facevo coraggio pensando che presto lo avrebbe trovato e allora sì che sarebbe ritornato l’uomo che avevo conosciuto e sposato. Gli uomini, mi ripetevo, devono avere un lavoro fisso e sicuro per sentirsi uomini e padri di famiglia veri, se non ce l’hanno perdono le staffe più delle donne. A dire tutto, proprio tutto, un giorno mentre andavo a ritirare il contributo che i servizi sociali ci davano per pagare l’affitto, avevo avuto un attimo di dubbio, avrei voluto chiedere un numero di telefono, un indirizzo, il nome di qualcuno con cui parlare della mia situazione, sfogarmi, sentire di essere ascoltata, capita e di tornare ad esistere o almeno essere presente nella sua mente di qualcuno mentre mi aprivo, ma, insieme, mi prese l’ansia di quello che sarebbe potuto succedere in casa se mio marito l’avesse saputo e soprattutto la vergogna per quello che mi stava succedendo. Devo riconoscere che negli ultimi tempi avevo molte paure e soffrivo spesso di ansie, specialmente quando lui era in casa o stava per arrivare; quando non c’era sentivo che stavo meglio. Quella sera, pareva una sera come le altre ma non fu così. Rientrò più tardi, avevo già dato la pappa ad Elio e l’avevo messo a dormire. Avevo tenuto in caldo la cena per noi due, aspettando con ansia e timore, diventati ormai consueti, il suo arrivo; anche i suoi ritardi oramai rappresentavano per me dei minacciosi avvertimenti. Rientrò. Non disse una parola ma si capiva benissimo che era di umore pessimo. Stetti zitta quando imprecò contro di me per il cibo preparato che definì una vera schifezza o qualcosa di simile. Andò a sedersi sul divano senza cenare ed accese la televisione mettendo al massimo il volume. Dopo un po’ di tempo, s’era fatta notte fonda, i vicini bussarono alla porta per chiederci di abbassarlo, volevano dormire, andò lui ad aprire e rispose loro in malo modo, gli sbatté la porta in faccia, tornò, si sedette, non abbassò il volume. Elio intanto si era svegliato, piangeva in modo disperato, corsi da lui e cercai di calmarlo ma niente da fare, il suo pianto questa volta non cessava, non era il solito pianto, aveva qualcosa di penoso e angosciante dentro che passò da lui a me e mi invase tutta in un modo che non mi era mai successo prima. Stava diventando un pianto insopportabile. M’imponeva di agire, una qualunque azione pur di farlo calmare. Fu per il frastuono assordante del televisore acceso o per il pianto disperato del mio bambino o per tutt’e due insieme, non so dirlo, che acquistai la forza di correre nel tinello e di spegnere io il televisore al posto di mio marito. Lo raggiunsi, presi il telecomando e premetti con forza il dito sul tasto. Questo mio gesto lo contrariò in un modo inaspettato e inspiegabile, lo mandò in bestia, con una ciabatta in mano incominciò ad inseguirmi per le poche stanze dell’appartamento gridando che avevo bisogno di una lezione. Mi raggiunse in bagno e lì incominciò a picchiarmi le braccia, a picchiarmi le gambe, a picchiarmi sul corpo a caso, dove capitava, poi dappertutto, anche sulla testa, con forza. Sentivo che il dolore cresceva, diventava sempre più forte il bruciore, aumentava dentro e fuori, non riuscivo neanche a gridare tanto mi toglieva il fiato. Tentai di divincolarmi, non so come ma ce la feci, mi buttai d’istinto verso la porta d’ingresso ma lui mi raggiunse a pochi metri dalla porta e fu lì che tutte le mie angosce, il mio terrore, i dolori fisici cessarono d’un tratto. Fu proprio lì e proprio così che si concluse la mia esistenza. Ora che tutto è finito, non soffro più ma ho tanti rimpianti. Uno, in particolare, non smette di premermi sul cuore, quello per il mio piccolo Elio senza la sua mamma. Mi domando di continuo, anche ora, che sto parlando con voi, che cosa farà il mio piccolino senza di me? E io, io che farò, cosa sarò senza di lui io che non l’ho protetto? L’autopsia ha rivelato accanto alle cause della mia morte anche che ero incinta di sei settimane. Non me ne ero accorta. Sapete, mi viene da fantasticare che forse sarebbe stata una femmina; mi sarebbe piaciuto tanto avere per secondo figlio una bambina. L’avrei chiamata Sara, un bel nome, non è vero? Mi ero entusiasmata tanto per quel nome un tempo lontano. Da bambina avevo letto a scuola un libro intitolato “La piccola principessa”. Non mi ricordo bene il nome di chi lo ha scritto. Ricordo invece molto bene che raccontava la storia molto triste di una ragazzina che, sin da piccola, aveva dovuto arrangiarsi a vivere da sola, senza i genitori; aveva patito tanto ma conservato sempre la sua dignità, però, se mi ricordo bene, il narratore aveva riservato un altro finale, un finale diverso, molto più giusto, più normale del mio.
Dichiarazione allegata al racconto breve intitolato “Maria”
Il racconto breve intitolato MARIA è unicamente frutto della libera creazione e della fantasia della sua Autrice. Qualsiasi riferimento a persone, a soggetti, a fatti, circostanze, ambientazioni geografiche, sociali e simili, a nomi propri, sigle e altro ancora di analogo eventualmente ivi presenti, pertanto, è puramente casuale.