Nel libro di Marcela Serrano, intitolato “Dieci donne” (Feltrinelli, Milano, 2012) sembrerebbe  che il rapporto madre-figlia e talvolta quello che vi comprende anche il rapporto della madre con la propria madre funzioni all’incirca così, ma è proprio vero?

Ancora, è proprio vero che alla base della femminilità di una donna sta sempre la qualità del relazione da lei vissuta con la propria madre se non addirittura quella corrispettiva sperimentata  dalla madre con la propria madre? Siamo tutti d’accordo?

Di seguito si fornisce qualche esempio accompagnato da qualche notazione circoscritta, estemporanea, perciò poco critica, quindi aperta alle integrazioni di chi vorrà leggere, in riferimento a una rosa tra i dieci casi clinici descritti nel libro le cui protagoniste rievocano, con le loro narrazioni in prima persona, non solo specifiche vicende delle loro vite, segrete e sociali, ma  si esprimono sulla qualità del loro rapporto con la madre spingendosi  talora  a comprendervi, anche quello intessuto dalla madre con la propria madre.

Una madre molto fredda

Colpisce come, tra i  denominatori  comuni ai nove racconti contenuti nel libro della Serrano, relativi alle vicende esistenziali ipotetiche delle nove pazienti di Natasha, (il decimo è riservato a lei, la neuropsichiatra-psicoterapeuta, la cui storia viene narrata, per l’appunto, in epilogo e non in prima persona bensì in terza ad opera di un’amica  da lei autorizzata) ve ne sia uno che, caparbio come una costante, ritorna insistentemente se non puntualmente, anche se espresso con cifre e tinte differenti: la relazione madre-figlia.

Non è, a mio avviso, per caso, che il racconto di Francisca il quale apre la serie delle autopresentazioni esordisca con uno scandito, battuto e ribattuto: “odio mia madre”. Salta subito in mente da chiedersi, impertinentemente, ma quale figlia, in nome della santa ambivalenza che ci caratterizza sentimentalmente in quanto umani, uomini e donne, non ha provato, almeno una volta nella vita, malcontento, antipatia, incompatibilità, diversità di vedute, se non avversione, rabbia o, peggio ancora, ribellione e rivolta, verso la propria madre? Lo dichiari subito che ci alziamo tutti in piedi per l’ovazione. Scopriremo, procedendo nella lettura, che sua madre non è stata, è vero, come si suole dire, proprio l’incarnazione della madre winnicottiana “naturalmente devota” ai figli, in questo caso, alla figlia; la madre primariamente preoccupata per il benessere e la  sicurezza dei suoi nati, quale auspicata da Stern, costantemente allarmata e attenta ai loro bisogni ed alle loro aspettative verso di lei,  la madre tutta abnegazione per la famiglia, per nulla propensa all’abbandono di figli e marito, come di fatto  avviene nel racconto. Comprenderemo altresì, ma solo verso la fine della vicenda, che, come in preda a una folgorazione, Francisca, figlia ormai adulta molto avviata, dopo essere stata spettatrice dell’orrore ostentato brutalmente da un video che un’amica della madre le chiede di vedere, si concederà un momento di riflessione. In quel video sua madre è ripresa come una vagabonda qualsiasi, una senza tetto, sporca, inebetita ed indifferente al mondo che la circonda, che gira scalza e fa pipì denudandosi alla cintola sul marciapiede di una metropoli americana non ben definita. Non solo si denuda e fa pipì, ma lo fa davanti a tutti, senza alcun ritegno e senza il minimo rispetto verso se stessa. Solo dopo questa visione, diremmo scioccante, stupisce come Francisca il cui odio per la madre è stato, per tutto il tempo della sua vita antecedente di donna, dilagante e determinante, quasi un punto fermo da cui muovere costantemente, riesca,  per un momento, a porvi un argine domandandosi segretamente se non avrebbe potuto in qualche modo impedire a sua madre questo esito desolato di fine vita, avrebbe potuto almeno una volta esserci affinché  lei non si lasciasse andare troppo e  dopo non andasse via da casa. Si rimprovera di non aver fatto nulla, di essere stata anche lei estranea, assente, fredda.

Una madre senza qualità

Anche Manè, secondo racconto, testimonia la presenza di un’immagine scolorita di madre; una provinciale fatta e finita, poco istruita e molto ingenua, ancorata ad altri tempi e ad altre usanze. Il divario generazionale, ma non solo questo dato storico sociale e fisiologico, la tratteggia come non attraente agli occhi della figlia e a quelli del lettore. Manè ci consegna la figura di sua madre come una figurina scolorita, da sfondo, come superflua, inutile, puerile, quasi patetica. Una madre non certamente oggetto di ammirazione ed identificazione da parte di una figlia, avida consumatrice di ambizioni, ma semmai del suo compatimento, un miscuglio di sentimentalismo vaporoso e indefinito e di quasi benevolo dispregio che, anziché avvicinare, raffredda ed allontana; lei è una madre da cui separarsi senza imbarazzo per inseguire un destino più emancipato e assolutamente altro da quello materno. Le attrici, certe attrici, quelle sì, diventano le sue identificazioni. La bellezza femminile s’insinua in Manè come un idolo o un feticcio da inseguire, da cui dipendere, in modo eccitato ed eccitante, totalmente. È un’operazione cui la madre non è tuttavia del tutto estranea; ha, da sempre, riconosciuto alla figlia di essere più bella di lei (non è stata in questo per la figlia quello che è stata la più nota regina-matrigna per Biancaneve), l’ha anche incoraggiata ad avviarsi sulla strada della bellezza, ad intraprendere una vita, una carriera, a non assomigliarle troppo nella sciatteria. È stato forse questo un suo modo, anche se piuttosto inconsueto, di amarla? Amare ed essere amata, almeno una volta nella vita; questa consapevolezza connota e denota, pare accompagnare il decadimento psicologico e fisico di Manè  infiltrandosi  fin nei minimi particolari degli avvenimenti che addensano il tenore della sua vita quotidiana; non più nella possibilità di vivere l’attimo fuggente, assapora il decadimento lento della senescenza  come  un degrado, un impoverimento indecente che, forse, senza quell’acquisizione, “in fondo ho amato e sono stata amata “, sarebbe probabilmente intollerabile. Forse quel lontano e singolare lasciapassare della madre ha potuto offrire, tutto sommato, qualche possibilità di fuga in più o di compromesso da e con un presente cupo, senza amicizie, inclinato inesorabilmente verso la sua inevitabile e lenta consumazione.

Un rapporto rovesciato: una figlia che fa da madre alla madre

Juana è la storia di una ragazza madre che ricalca, pur restandone in buona parte ignara, le orme della propria madre, anche lei, una ragazza madre. Solo una differenza: sua madre è stata una ragazza madre che in più è stata maltrattata dal compagno con cui l’ha fatta nascere. Juana  a questa sua madre ora anziana fa quasi da madre, accudente e protettiva,  almeno così si propone di fare sino alla fine; in questo servizio, oblativo, verso la  madre malata che considera alla stregua di una figlia, coinvolge la figlia Susy, impedendole di compiere i passaggi iniziatici importanti dalla preadolescenza all’adolescente come sarebbe giusto che facesse, di vivere per  intero la tribolata, felice ed infelice vita degli adolescenti suoi pari; la priva di questo fondamentale passaggio alla vita. C’è un’inversione chiara dei ruoli genitrice-figlia ed una meno chiara e più strisciante sfida al padre, violento ed inesistente, reo di averle rubato l’infanzia e l’adolescenza, da estromettere definitivamente. Trasforma la madre nella sorella maggiore della figlia, la tira dentro un triangolo in cui Susy, la figlia che sta faticosamente uscendo dall’infanzia non può che soccombere. Da ragazzina compiacente com’è, un Sé falso e obbediente, a modo suo, cerca di sottrarsi al comando materno, ma è una sottrazione sterile, una fuga da casa di breve durata, seguita da un rientro. La malattia che la costringe a dipendere da Juana in tutto e per tutto chiude il cerchio e lo costringe dentro un triangolo ai cui tre vertici stanno tre figure femminili, tre età della vita di una donna accomunate da un solo destino, la nonna, la madre, la figlia. A nessun altro è permesso di entrarvi, il sesso e l’amore che sembra concedersi di fatto Luana vengono individuati, scelti e vissuti da lei in quanto contrassegnati da un destino fallimentare, dopo aver brillato per una breve, effimera e illusoria stagione.

Una madre rigida

Una madre che nei confronti dei propri figli, specialmente nei confronti delle figlie femmine, eccede nelle regole e nell’etichetta comportamentale da mantenere rigorosamente dentro e fuori casa per celarvi sotto la propria incapacità e la propria fatica ad ascoltarli e a comunicare con loro avendo voglia di impegnarsi a comprenderli, può provocare il loro allontanamento, il loro distacco e un’insoddisfacente maturazione evolutiva. Simona è una single, psicologa, femminista. Una famiglia agiata, bene, si direbbe, con un solo difetto: l’eccesso di regole. La rigidità delle imposizioni, coarta l’affetto materno, lo rende anchilosato, irretito dalla regola, fa sì che inevitabilmente scivoli dentro alla scelta delle bambinaie che dovrebbero offrire il surrogato di ciò che rimane celato ma le tate danno solo piatti colmi di cibo al posto dell’affetto. Questi eventi nutrono, invece, stranamente, la ribellione, l’anarchia, spesso anche il proposito terrorista nel figlio. Ricordati che tu non ti appartieni, tu hai ed avrai sempre una regola al di sopra di te, un super-io, un dover essere molto castranti da tener presenti sempre e comunque, si trasformano in un monito interno costante capace solo di non far stare il figlio mai bene  in nessun posto, mai sereno completamente e per troppo tempo in compagnia di qualcuno, mai quieto di fronte a se stesso e agli altri, mai pago ovunque si trovi,  mai capace di perdonare e perdonarsi di fronte alle proprie emozioni e ai propri stati emotivi, se all’alto prezzo di divincolarsi  dai legami e di  intellettualizzare  situazioni e fatti, in un diuturno e estenuante lavoro di ripulitura  e sgombero degli eventi della vita dagli affetti e dalle emozioni, al fine di rintuzzarne la presenza per il timore dei rischi che si correrebbero a non tenerli bene sotto controllo e a non allontanarli al più presto possibile dalla coscienza incrementando opportunamente le difese  meno producenti. Solo agendo in questi termini si raggiunge il controllo, la sicurezza; solo con il controllo che si esprime nelle etero e auto-imposizioni appare esorcizzato ogni turbamento, inquadrata geometricamente ogni incertezza, annullato ogni dubbio. L’ossessività fa la sua comparsa in scena e, a questo punto, diviene frequentemente la sola ed unica compagna abituale di vita.

Una madre abusante

Quasi sempre siamo portati a pensare che i maltrattamenti fisici o psicologici, o il risultato delle due tipologie combinate , messi in atto da parte dei genitori sui figli  sia un  fenomeno che si manifesta dentro  famiglie specifiche ben caratterizzate ora da condizionamenti socio-ambientali, ora culturali, ora relazionali, interpersonali, da disturbi psichici o situazioni problematiche dei genitori non risolte o di tutte queste cause e concause mescolate assieme  e più o meno bene identificabili  qualitativamente e soppesabili e misurabili quantitativamente. Analogamente a quanto avviene per gli abusi sessuali o le molestie sessuali, siamo indotti a ritenere che siano causati da aberrazioni di natura psicosessuale e caratteriale rintracciabili ed etichettabili in quanto presenti nei genitori o nelle dinamiche inconsce di coppia. Quasi mai siamo indotti a pensare che i problemi non risolti, i lutti, i traumi non elaborati dai genitori sin dall’infanzia prima, possano giacere dentro di loro, in una zona dell’inconscio in cui vengono rinchiuse le esperienze negative vissute ma mai realmente comprese e spiegate dal pensiero,  mai assunte a consapevolezza dalla coscienza ma rimaste costantemente in agguato nell’ombra, un  doloroso vissuto conosciuto dal soggetto ma mai portato a parola, mai completamente digerito mentalmente, di cui il genitore si libera, in qualche modo,  passandolo, facendolo finire direttamente sul figlio. Un genitore che è stato abusato, trascurato, maltrattato da piccolo e che non ha mai potuto trasformare queste esperienze negative in pensiero e discorso tollerabili tenderà a fare ricadere l’abuso e il maltrattamento sul figlio.

L’inconsistenza esistenziale di Ana Rosa è dettata, voluta dalla madre che ne fa la vittima prescelta, la destinataria e la depositaria delle sue fragilità personali, potremmo dire che la madre scarica i suoi drammi, le sue segrete paure di bambina, le sue dolorose esperienze precoci conosciute ma mai pensate, le sue ansie di donna sulla figlia. Spesso l’abuso e il maltrattamento viaggiano insieme e sono il risultato della delusione profonda sofferta da uno dei due genitori o di entrambi i due genitori per dinamismi antichi personali e biografici o interni alla coppia al figlio/a che è costretto a portarli dentro di sé per tutta la vita, a subirli, spesso non in modo consapevole ma, non per questo, meno deprivante e devastante.

A una madre abusata che è stata lasciata sola e non è stata a suo tempo protetta, riesce difficile rispondere alla richiesta di protezione che la figlia le rivolge. Ana Rosa continua e continuerà ancora a porgergliela.

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