Gruppo di lettura Groppallo

Vado Ligure, (Savona) – 19 marzo 2019

 

THE BELL JAR – romanzo di Sylvia Plath

(uscito nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lucas)

 

Mi avvalgo, per questa breve sintesi sul romanzo, di alcuni brani tratti dal lavoro di tesi discusso presso l’università di Pisa nell’a.a. 2014 dalla candidata Dott.ssa Chiara Leto Barone, relatore il Ch.mo Professor Fausto Ciompi, pertinenti alla cornice storica e alla trama del romanzo in quanto mi appaiono, rispettivamente, frutto di una ricerca seria e di un’analisi approfondita, ricca e, a mio avviso, particolarmente interessante. All’intero testo di tesi si rimanda tutti coloro che desiderassero completare e ulteriormente andare a fondo.

Il romanzo trae ispirazione dalla dolorosa crisi che la Plath ebbe nell’estate del 1953 che la portò a tentare il suicidio e che si concluse con il ricovero in una clinica psichiatrica e con le sedute di elettroshock. The Bell Jar è diventato il manifesto della condizione femminile tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, donne che, negata ogni forma di ambizione se non quella di diventare mogli e madri, rimangono intrappolate in un’asfissiante campana di vetro che è anche una vera e propria campana di paura e di morte. Sylvia Plath scrive un romanzo dalla tessitura ritmica, un romanzo da cui emerge, forte, un grido di rabbia e di dolore. Quello che Sylvia compie nel suo romanzo è di rivendicare un ruolo che nessuna donna avrebbe osato rivendicare negli anni sessanta: la donna assetata di nuove conoscenze, la donna che seduce e non viene sedotta, la donna che rifiuta di vedersi vivere. La protagonista è lei, Sylvia stessa, anche se sotto il nome di Esther, i cui dati esistenziali e biografici compenetrano gli elementi fantasiosi dell’invenzione; biografia e scrittura costituiscono il fascino ossessivo di questo libro ma forse di tutta la sua produzione artistica e che sembra tuttora catturare non solo i critici.

La Plath stessa nel suo diario scrive a proposito di questo libro: sarà la storia di una giovane donna, forte intelligente, alle prese con l’amore e la tentazione di suicidarsi, l’ambiente in cui si consumano le vicende della protagonista sarà quello universitario; a livello stilistico deve essere complesso, ricco e vivido, intenso per niente sentimentale. Una voce personale ma anche generazionale. Di fronte a questo che lei considera il suo romanzo si presentano dei blocchi di scrittura, i suoi demoni sinistri che covano nel suo animo e non cessano di farsi sentire. Il libro è un testo narrativo rilevante per le denunce che contiene e non una semplice confessione o una storia privata.

Il titolo del romanzo sollecita ulteriori considerazioni chiarificatrici. La campana di vetro è un recipiente usato nei laboratori di chimica e di fisica, evoca la condizione di oggetto sotto osservazione, isolato e senza contatto con l’aria. Il vetro ricorre spesso nella poesia di Sylvia e rappresenta la depressione e l’impossibilità di scrivere. Questo titolo apparentemente simbolico ci fa comprendere fin dall’inizio l’atmosfera soffocante e limitante in cui vive la protagonista Esther Greenwood. Il suo è un mondo in cui l’io individuale e privato viene sottomesso da istituzioni e codici ben precisi e concreti nei confronti dei quali si può accettare un compromesso negativo e subalterno di comportamento o rischiare di opporsi il che risulta rischioso e traumatico. Le istituzioni che esercitano una tale espressione sono la famiglia, l’università americana e gli ospedali psichiatrici dove dominano professionisti come il Dottor Gordon; ma i più determinati e implacabili strumenti dell’alienazione rappresentata nel libro sono gli uomini che sfruttano la donna ai propri fini. Il romanzo scaturisce da un’esperienza autobiografica quella del 1953 che la vede nelle vesti di stagista a New York, presso una rivista femminile che sfociò, una volta rientrata a Boston, in un drammatico tentativo di suicidio e di conseguenza nel ricovero in una clinica psichiatrica. Nel romanzo si intrecciano diversi temi, ma quello prevalente è l’autobiografia dell’esaurimento nervoso della protagonista. Il libro mostra fino a che punto la protagonista può accettare di essere l’incontestabile prodotto di una famiglia e di una madre ambiziosa e in che modo deve negare l’influenza di questi elementi per poter finalmente giungere a una rinascita e mettere in discussione i ruoli di figlia obbediente e di buona madre e moglie che la società americana degli anni cinquanta imponeva. Per raggiungere i propri obiettivi e per affrancarsi dal condizionamento di severe e incontestabili norme di comportamento, Esther dovrà intraprendere un percorso personale doloroso quanto necessario.

Contenuti salienti del romanzo

Il romanzo poggia su tre blocchi narrativi.

Il primo arriva sino al capitolo IX e segue il processo di educazione  di Esther che, da ragazza di provincia, si vede proiettata nella mondana e movimentata New York; con il ritorno in provincia, al mondo chiuso di Boston, si entra nel secondo blocco capitoli X-XIII in cui viene scandagliato l’aspetto di anormalità progressiva della protagonista e infine il terzo blocco che conduce alla conclusione e che descrive il processo di riabilitazione che permette a Esther di guarire e di uscire non si sa se momentaneamente o definitivamente dalla soffocante ed alienante campana di vetro in cui è rinchiusa.

Alcuni passaggi emblematici.

A New York c’è l’incontro con Doreen “la femme fatale con l’aria di decadence” che la protagonista ripudierà sentendosi più vicina a Betsy, l’innocente e virtuosa “pollyanna cowgirl”. Contemporaneamente cresce in lei un sentimento di sdegno e di cinismo verso gli altri che la porta a provare antipatia per tutti sentimento che diventa come un suo distintivo permanente. L’’incontro amaro con Joy Cee, editor della narrativa della rivista che ha favorito lo stage di New York, tristemente le riporta alla mente la figura della madre e costituisce di fronte a lei un primo alter ego, severo, che in parte le anticipa quanto le accadrà più avanti. Scoprire dentro quest’avventura newyorkese che avrebbe dovuto spalancarle le porte per un promettente futuro di scrittrice, la sua incapacità stessa di sceglier il proprio futuro provoca in lei solo rabbia e delusione, lei che aveva sperato e contato su Joy Lee come in una guida, in un esempio fa l’amara esperienza di una speranza che invece si rivela fallace.

Grazie a Mrs.Willard, la madre del suo eterno fidanzato Buddy, Esther conosce Constantin, un interprete ONU di nazionalità greca dalla spiccata sensibilità; durante questa conoscenza Esther comincia a pensare alla sua vita come ad un albero di fico carico di frutti avvizziti e marci quasi un presagio di quanto le accadrà più avanti. Si accorge della sua incapacità di scegliere per sé e la propria vita, prende consapevolezza del suo essere volubile e debole, queste consapevolezze la imprigioneranno ancora di più nella campana di vetro, asfissiante campana di morte.

L’esperienza newyorkese di Esther si conclude con il tentativo di stupro da parte di Marco un “woman hater” che lei colpisce, per difendersi dallo stupro, al naso, ma cui lui risponde marchiandola sul volto con due sfregi due strisce del suo sangue colato dal naso sul volto della ragazza; questo atto arcaico e tribale le torna ancora più offensivo dello stesso tentativo di stupro. Tornata in albergo butta via dalla finestra tutto il suo ricco guardaroba emblema di quello che la madre vorrebbe lei diventasse, sancendo con quel gesto anche il suo fallimento rispetto alle aspettative materne che la vorrebbe un’ineccepibile compita brava e ricca signorina!

Inizia un periodo in cui Esther ripudia tutto ciò che antecedentemente aveva agognato tra cui anche Buddy il fidanzato che valuta come ipocrita e falso. Con il decimo capitolo, inizia il racconto del crollo di Esther; lo sguardo di Esther diventa cinico e lenticolare; è lo sguardo di una ragazza che si sta spersonalizzando.

La simbologia diventa d’ora in poi, più intensa e si focalizza su alcune polarità: la vita, la nascita, la morte. La stranezza traspare dal comportamento di Esther. Parla a voce alta da sola, non si lava, mette vestiti non suoi, la gente la giudica una pazza. L’idea della morte arrivatale, un primo tempo, attraverso i Rosemberg, come qualcosa di esterno a lei, ora diventa invece un’idea fissa dentro di lei. La madre le dà la notizia della sua non ammissione al corso di scrittura estivo. Da questo momento Esther non riuscirà più né a leggere né a scrivere, a dormire, a mangiare; in preda a un’apatia profonda, eviterà gli altri e rifiuterà proposte alternative al corso di scrittura.

Alla base di questo intenso disagio c’è il disprezzo per la madre, un forte antagonismo nei suoi confronti sino a indurla a pensare di strangolarla mentre sta dormendo e russa.

La Plath sembra proprio voler esplorare a fondo la complicità  tra madre e figlio per la quale quest’ultimo è portato a fare solo ciò che la madre desidera. La malattia di Esther è sostanzialmente una forma, un atto di ribellione contro la madre e i suoi progetti su di lei. La rabbia verso la madre non si manifesta solo a livello di psiche ma anche sottoforma di blocco della creatività. I sintomi aumentano progressivamente sino a che si arriva all’incontro con lo psichiatra, il dottor Gordon, giovane bello arrogante incapace di capire. La cura e l’errore gravissimo compiuto dal medico nella somministrazione del primo elettroshock la induce ad abbandonarla, a rifiutarla.

Iniziano i molteplici tentativi di suicidio destinati a fallire uno dopo l’altro; determinante perché Esther si decida al suicidio definitivo è la visita che compie alla tomba del padre. Di ritorno dal cimitero lascia alla madre un biglietto “Sono andata a fare una lunga passeggiata”. In realtà, va in cantina, entra in un interstizio buio, segreto, rannicchiata lì dentro incomincia ad ingoiare le pastiglie del sonnifero rubate alla madre. Resterà lì due giorni la troveranno tramortita ma ancora viva.

Nella terza parte del romanzo, si assiste alla sua guarigione, Esther migliora fisicamente, si riprende, ma la situazione mentale non migliora di pari passo. Ad aiutarla interviene una donna scrittrice Philadelphia Guinea anche lei con esperienze di degenza psichiatrica che la fa dimettere dall’ospedale pubblico e ricoverare in una clinica privata.

Con sua somma sorpresa Esther incontra qui Joan Gilling, già rivale in amore e che sempre più sembra rappresentare un altro suo doppio, un alter ego che le si contrappone.

Uno dei più rilevanti cambiamenti a cui assistiamo nella terza parte, l’ultima, consiste nel trasferimento del ruolo genitoriale da Mrs Greenwood, la madre naturale, alla Dott.ssa Nolan, la psichiatra che si prenderà per la prima volta veramente cura di Esther. Con l’introduzione di questo personaggio rassicurante e positivo (l’unico del romanzo) l’opera plathiana assume un alone di promessa, di rinascita che l’autrice ha cercato di ricreare. La vera eroina del romanzo è la dott.ssa Nolan che la protegge e l’aiuta a separarsi dalla madre, donna forte e possessiva, le facilita la guarigione. La caratteristica della dott.ssa Nolan quella che emerge più di tutte è il suo essere diversa da tutte le donne mature che Esther ha incontrato. Sa ascoltare Esther e, senza biasimarla, accoglie la sua dichiarazione di odio per la madre. Grazie al suo supporto Esther inizia a poco a poco a sentirsi indipendente e a diventare in grado di gestire la sua vita. Decide di perdere la sua verginità ma incappa in un’emorragia ultimo residuo della punizione simbolica che si autoinfligge chi trasgredisce le regole della madre e quelle della cultura dominante; riesce ad assistere al funerale e alla sepoltura di Joan, morta suicida. Rientrando dal funerale Esther fa un profondo respiro e ascolta il suo cuore ripetere, come una voce interna, intima, che è viva, ribadendo in ciò il suo diritto di essere e di esistere. L’ultimo episodio riguarda il colloquio che Esther deve sostenere con il comitato di valutazione della clinica psichiatrica per poter esserne dimessa.

Di una cosa i lettori devono essere certi: se la madre di Esther farà tutto il possibile per dimenticare, Esther non dimenticherà.

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Per chi volesse approfondire ulteriormente la sua conoscenza su Sylvia Plath mi pregio di segnalare due studi recenti di Stefania Caracci:

“Sylvia Plath – I giorni del suicidio” ed. Ripostes, Salerno, 2001.

“Sylvia. Il racconto della vita di Sylvia Plath”  ed. E/O, 2013.

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2 commenti

  1. La lettura del romanzo per me è stata pesante e poco comprensibile. Se avessi letto queste considerazioni, molto ben esposte, lo avrei letto con un altro interesse. Complimenti.

    1. Grazie Bruno per il tuo commento! In effetti, la scrittura di Sylvia Plath non è mai troppo avvicinabile proprio per la crudezza dei temi che affronta spesso autobiografici, resta comunque un’autrice ma soprattutto una poetessa di valore e spessore internazionale. Direi un fenomeno poetico degno di rilievo del secolo scorso ma non solo.

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