BERGSON E IL “RISO”

Nel 1900 Bergson filosofo francese, contemporaneo di Pirandello, pubblicò un breve libro, intitolato “Il riso. Saggio sul significato del comico” destinato ad un successo travolgente, conobbe ben ben sessanta edizioni!

In questo saggio Bergson muove da un’idea antica: il riso ha una funzione sociale.

Egli parte da una constatazione di natura generale: se il riso è un gesto che appartiene a pieno titolo al comportamento umano, allora deve essere lecito domandarsi qual è il fine che lo anima.

Ora, per comprendere il fine cui mira un comportamento si deve, in primo luogo, fare luce sulle occasioni in cui questo comportamento si manifesta e per Bergson vi sono almeno tre punti che debbono, a questo proposito, essere sottolineati:

1. Punto ” Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”.

Questa affermazione può lasciarci di primo acchito un po’ perplessi, ma se ci pensiamo bene ciò che fa ridere è proprio il rimando a ciò che di umano si nasconde in ciò che fa ridere.

Alla massima antica secondo la quale l’uomo è un animale che ride si deve affiancare quella moderna e aggiornata secondo cui l’uomo è un animale che fa ridere.

2.Punto. Il riso scaturisce solo di fronte a ciò che, direttamente o indirettamente, appartiene all’ambito umano: perché possa, tuttavia, scaturire è necessario che chi ride non si lasci o non sia totalmente coinvolto emotivamente dalla scena che lo diverte. Ad es. Per ridere di una piccola disgrazia o di un difetto altrui dobbiamo far tacere, per un attimo, la compassione, la pietà, la simpatia e porci come semplici spettatori o per dirla con lo stesso Bergson, come intelligenze pure. Ill comico esige, dunque, per produrre il suo effetto, qualcosa di assai simile ad ” un’anestesia momentanea del cuore”.

3.Punto. il riso chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che ci lega a colui di cui ridiamo, sappiamo tutti, tuttavia, molto bene che può accadere spesso, talvolta, anche sulla nostra stessa pelle, che il riso è un’esperienza corale. Ridiamo di più e ridiamo meglio quando siamo insieme agli altri e il riso è spesso il cemento che tiene unito un gruppo di persone. “Il riso, commenta Bergson, cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano”.

Qualcosa sembra accomunare queste tre osservazioni:il riso è strettamente connesso con la vita sociale dell’uomo, per il fatto che l’uomo è un animale sociale. Ovvio. Ma anche altre specie animali sono e nascono massimamente sociali e come mai in loro non scatta il meccanismo del riso o del sorriso?

Facendo convergere i tre punti in un’unica tesi che getta luce sul quando il comico si origina parrebbe che esso si esprima e si manifesti quando “alcuni uomini esseri umani riuniti in un gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza”. E se le cose stanno così, se il riso come comportamento umano sorge nella vita associata, allora si può supporre che esso risponda a determinate esigenze della vita associativa umana non solo ma che il riso svolga una funzione sociale e che sorga dalla constatazione di una sorta di contraddizione: ciò che dovrebbe comportarsi in modo libero, vivo, spontaneo, sembra invece assoggettare i suoi gesti a leggi meccaniche, alla cieca ostinazione del meccanismo. Al riso spetterebbe dunque il compito di sanare questa contraddizione richiamando quella parte della società umana (reale o immaginaria) che è colpevole di comportamenti rigidi ostinati ad atteggiamenti più elastici, ad uno stile di vita più duttile e desto. Un atto molto sofisticato dell’intelligenza umana…

Comico è – scrive Bergson – qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri.

Il riso è la via per correggere questa distrazione e per risvegliare dalla rigidità’ di certe abitudini che sono state contratte da un nostro simile e che sarebbe giovevole egli provasse a riconsiderare e a ritrasformare anche per vivere meglio con se stesso prima ancora che con gli altri.

La COMMEDIA dà spazio e tempo e luogo a questa funzione eminentemente sociale del riso; la commedia è il luogo dove il riso e la comicità trovano la loro collocazione e le persone del pubblico possono esercitare la funzione del riso come gesto sociale, in contemporanea per così dire, produrre su di sé in modo naturale questo effetto trasformatore.


 

L’UMORISMO PER PIRANDELLO

Anche Pirandello scrisse nel 1908 un saggio intitolato” L’umorismo”.

L’umorismo, in questo scritto, diventa per Pirandello, non un concetto storico, ma un concetto che circoscrive un comportamento umano relativamente stabile nel tempo e comunque indagabile con gli strumenti propri dell’indagine psicologica.

Per Pirandello la comicità sorge dalla constatazione dell’inadeguatezza di un comportamento, di un modo di dire, di un gesto o anche solo di un viso: ci basti imbatterci in una donna molto anziana truccata vistosamente da ragazzina, quasi a voler sfuggire l’immagine di una giovinezza ormai inesorabilmente passata, perché – egli nota- il riso si faccia avanti. Di qui la definizione proposta da Pirandello: la comicità nasce dall’ “avvertimento del contrario”. La realtà che constatiamo non è come ci si vorrebbe far credere, e ridendo esprimiamo il nostro verdetto di condanna sulle apparenze e ribadiamo la loro difformità dal vero.

Dalla comicità intesa come avvertimento del contrario passiamo tuttavia all’umorismo quando il contrasto non è più soltanto percepito, ma è per così dire colto in tutta la pienezza del suo significato, non si limita alla percezione ma si trasforma in appercezione e diventa sentimento: l’umorismo è appunto il “sentimento del contrario”.

L’umorismo per Pirandello poggia sul terreno mobile della comicità, dall’avvertimento del contrario e dalla condanna che ridendo pronunciamo. Ma l’umorismo è anche superamento della comicità quando oltre all’avvertire, al sentire, fa intervenire un nuovo operatore mentale: la riflessione la quale ci permette di lasciare alle nostre spalle la comicità.

Due sono le funzioni che la riflessione esercita. La prima consiste nel mettere a distanza noi stessi; la riflessione, infatti, ci permette di analizzare freddamente i nostri stati d’animo, ci consente di giudicarli, soppesando i motivi che li hanno determinati; da qui il secondo compito che la riflessione assolve. Riflettendo sui nostri stati d’animo, di fatto, impariamo anche a relativizzarli, a cogliere le ragioni che vi stanno alla base e che avevamo magari precedentemente ignorato o negato.

Torniamo alla situazione comica da cui eravamo partiti: la vecchia signora che si maschera da ragazzina e proprio per questo desta il nostro spirito critico proprio della comicità. Questa volta il riso non riempie per intero la nostra coscienza ma cede alla riflessione e ci chiarisce che certo è ridicolo chi non sa accettare il trascorrere del tempo ma è anche vero che tutti cerchiamo di esorcizzare la vecchiaia e la morte. Ridiamo ma la riflessione ci costringe a scoprire le ragioni più intime in noi di ciò che abbiamo deriso, apre una breccia verso lo stato d’animo che ci separa dall’altro e riscopre una comunanza che la comicità da sola aveva negato. Continuiamo ad avvertire il contrario che ci fa ridere ma ora ne avvertiamo le ragioni che in qualche modo direttamente o indirettamente ci toccano.

La riflessione, dice Pirandello parlando a se medesimo, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre quel primo avvertimento, più addentro. Da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. La principale differenza tra comico e umoristico sta qui.

Sappiamo che questo saggio ha rappresentato per Pirandello un punto fermo per la sua arte, lo si può ricavare dalle ultime pagine dove definisce l’umorismo come un tratto essenziale della condizione umana che fa tutt’uno con la filosofia della vita che egli ha fatto sua. Non a caso il saggio è dedicato a Il fu Mattia Pascal. La scelta di questa dedica la dice lunga. La scena di Mattia Pascal nell’atto di portare fiori sulla sua tomba è senz’altro comico ma l’avvertimento di questo contrario vivo-morto può facilmente trapassare nel suo sentimento: non solo Mattia Pascal, ma ogni uomo seppellisce sé stesso se viene impaniato nelle forme morte dell’esistenza, nelle vuote convenzioni, nelle abitudini che col fluire del tempo gli tolgono a poco a poco la vita.

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